I MAESTRI DEL NOVECENTO
Eugenio Montale
da La Bufera e altro
Gli orecchini
Non serba ombra di voli il nerofumo
della spera. (E del tuo non è più traccia)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d'oro scaccia.
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l'iddia che non s'incarna, i desideri
porto fin che al tuo lampo non si struggono.
Ronzano èlitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli.
L'arca
La tempesta di primavera ha sconvolto
l’ombrello del salice,
al turbine d’aprile
s'è impigliato nell’orto il vello d’oro
che nasconde i miei morti,
i miei cani fidati, le mie vecchie
serve – quanti da allora
(quando il salce era biondo e io ne stroncavo
le anella con la fionda) son calati,
vivi, nel trabocchetto. La tempesta
certo li riunirà sotto quel tetto
di prima, ma lontano, più lontano
di questa terra folgorata dove
bollono calce e sangue nell’impronta
del piede umano. Fuma il ramaiolo
in cucina, un suo tondo di riflessi
accentra i volti ossuti, i musi aguzzi
e li protegge in fondo la magnolia
se un soffio ve la getta. La tempesta
primaverile scuote d’un latrato
di fedeltà la mia arca, o perduti.
Piccolo testamento
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d'officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest'iride posso
lasciarti a testimonianza
d'una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell'Hudson, della Senna
scuotendo l'ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere all'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero
L'anguilla
L’Anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione;
la scintilla che dice
tutto incomincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito;
l’iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?
Da Le Occasioni
La casa dei doganieri
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.
Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… )
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta
Giorgio Caproni
da Il passaggio d'Enea
Le biciclette
La terra come dolcemente geme
ancora, se fra l’erba un delicato
suono di biciclette umide preme
quasi un’arpa il mattino! Uno svariato,
tenue ronzio di raggi e gomme è il lieve,
lieve trasporto di piume che il cuore
un tempo disse giovinezza – è il sale
che corresse la mente. E anch’io ebbi ardore
allora, allora anch’io col mio pedale
melodico, sui bianchi asfalti al bordo
d’un’erba millenaria, quale mare
sentii sulla mia pelle – quale gorgo
delicato di brividi sul viso
scolorato cercandoti!… Ma fu
storia di giorni – nessuno ora più
mi soccorre a quel tempo ormai diviso.
Non mi soccorre nessuno ove i nomi
stando, di pietra, fermi sulla terra
non velata di lacrime, fra i pomi
maturati a una luce a ottobre acerba
ancora, respiravo i pleniluni
d’improvviso oscurati dal tuo passo
d’improvviso maturo – dai profumi
immensi che il tuo corpo acido, oh sasso
insensato ch’io dissi Alcina, ambiva
regalarmi all’aperto nella notte
montuosa. E intanto lenta scaturiva,
dal silenzio infinito, un’altra corte
infinita di brividi sul viso
scolorato toccandoti: ma fu
storia anch’essa conclusa – né ora più
m’è soccorso a quel tempo ormai diviso.
Le ginocchia d’Alcina umide e bianche
più del bianco dell’occhio! la prativa
spalla! quei suoi rompenti impeti, e a vampe
vaste i rossori nell’aria nativa,
acqua appena squillata!… O fu una fede
anch’essa – anche il suo nome fu certezza
e appoggio fatuo alla mia spalla, erede
dell’inganno più antico? Nella brezza
delle armoniche ruote, fu anche Alcina
la scoperta improvvisa d’una spinta
perpetua nell’errore – fu la china
dove il freno si rompe. E una trafitta
di brividi, all’inganno punse il viso
logorato d’amore al grido: «Tu
hai distrutto il mio giorno, né ora più
v’è soccorso a quel tempo ormai diviso.»
E ahi rinnovate biciclette all’alba!
Ahi fughe con le ali! ahi la nutrita
spinta di giovinezza nella calda
promessa, che sull’erba illimpidita
da un sole ancora tenero ricopre
nuovamente la terra!… Fu così,
dolce amico remoto, unico cuore
vicino al mio disastro, che colpì
questa città lo sterminato errore
di cui tenti una storia? Io non so come,
o Libero, in quest’alba veda il sole
frantumarsi per sempre – io non so come
nel brivido che mi percorre il viso
inondato di lacrime, già fu
fulminato il mio giorno, né ora più
v’è soccorso a quel tempo ormai diviso.
Fu il transito dei treni che, di notte,
vagano senza trovare una meta
fra i campi al novilunio? Per le incolte
brughiere, ahi il lungo fischio sulla pietra
e i detriti funesti cui la brina
dà sudori di ghiaccio. Ivi se l’alba
tarda a portare col gelo la prima
corsa di biciclette, ecco la scialba
geografia del mondo che sgomenta
mentre Alcina è distrutta – mentre monta
nel petto la paura, e il cuore avventa
le sue fughe impossibili. E nell’onda
vasta che ancora germina sul viso
che non sfiora più un brivido, già fu
storia anch’essa sommersa, né ora più
v’è soccorso a quel tempo ormai diviso.
Ma delicatamente a giorno torna
il suono dei bicicli, e dalle mura
trovano un esito i treni che l’orma
antica dei pastori urgono – dura
lamentela di ruote sui binari
obbliganti dell’uomo. E certo è Alcina
morta, se il cuore balza ai solitari
passeggeri, cui lungo la banchina
dove appena son scesi, dal giornale
umido ancora di guazza esce il grido
ch’è scoppiata la guerra – che scompare
dal mondo la pietà, ultimo asilo
agli affanni dei deboli. E se il viso
trascorre un altro fremito, non più
può sgorgare una lacrima: ciò fu,
né v’è soccorso al tempo ormai diviso.
Ed i bicicli ronzano funesti
ora che l’uomo s’intana la notte
perché nel sonno l’altro non lo desti
di soprassalto – perché alle sue porte
non senta quella nocca che percuote
accanita col giorno, allorché un giro
di tetre biciclette ripercuote
con un tremito il vetro nel respiro
della morte all’orecchio. E quale immensa
distruzione a quei raggi lievi – quale
armonia di disastri, ora che senza
cuore preme un tallone sul pedale
come sull’erba ha già calcato un viso
rimasto senza un fremito!… Ma fu
storia anch’essa travolta – né ora più
v’è soccorso a quel tempo ormai diviso.
Non v’è soccorso nel mondo infinito
di nomi e nomi che al corno di guerra
non conservano un senso, ma riudito
è umanamente ancora sulla terra
commossa in altri petti quest’eguale
tenue ronzio di raggi e gomme – il lieve,
lieve trasporto di piume che sale
dal profondo dell’alba. E se il mio piede
melodico ormai tace, altro pedale
fugge sopra gli asfalti bianchi al bordo
d’altr’erba millenaria – un altro mare
trema di antichi brividi sull’orlo
teso d’altre narici, in altro viso
scolorato cercando chi non fu
storia ancora conclusa, anzi un di più
nel tempo ancora intatto ed indiviso
Andrea Zanzotto
da Dietro il Paesaggio
Tu sei, mi trascura
Tu sei: mi trascura
e tutto brividi mi lascia la stagione;
fragole e boschi e pomi a perdizione
nelle miriadi delle piogge.
La pura estate consumata
dai grandi venti
illuminata dall'amore
e tutta un'altra fioritura
che non significa e non pesa
a questo pomeriggio improvvisato
perché da te mi possa congedare.
Con te verde ora
di caligini e raggi
mi salvi, io vedo ancora
tra accecanti ricchezze.
In basso
Sull’immenso declivio dei greti
oltre i limiti del vento
i paesaggi si spengono in foglie
e tenta il sole nuvole remote.
Tanto godé chi visse
che la ricca memoria marcisce
e di bellezza l’anima è stanca;
alle sterili cacce ora s’accende
e nei boschi affonda
i cammini pesanti
in basso, dove al lume
di morenti bufere
nobili cani e uccelli
incalzano l’ultimo autunno.
Dei ruscelli fantasia
di bimbi ignari non resta
che una trasparenza di gelo.
Ma se tu appari
sulla strada, improvvisa,
e chini il capo sorridendo,
ancora un raggio ha il tuo monile.
Da Elegia e altri versi
Contro monte
Dove ultima delle mie pene
Soligo fosca si cementa
al suo monte sdegnato dal cielo,
dove il fiume sussulta
e tenta col vano meandro
liberarsi dal melmoso autunno,
più vicino al tuo volto
al tuo corpo embrione aspro del sole:
là mi riscuoto, là rovescio la vita
mia, sonno infetto di terra
che arresta e stringe al muro i paesaggi;
e la fuliggine delle alluvioni
invola contro monte il mezzodì.
Da Vocativo
I compagni corsi avanti
Compagno, a sera io volgo, ove più antico
d’aneliti e di piante affonda il bosco.
Ah perduto alle spalle, tra il nemico
sole, perché più ormai non ti conosco?
E va, l’estate in guerra, muove al corso
dei suoi dolori le grandi erbe e i fumi.
Ah compagno, chi ti darà soccorso
quando agosto deflagri e ti consumi?
Esule il cuore, dentro il regno vuoto
brancolo, è tardi, e monte io muto a monte.
Dove, con altro sguardo, nel remoto
gorgo, nel fango celi la tua fronte?
Fieni in faville sui cammini e, vive
ancora, d’altri dì memori luci.
Ah compagno, ma a quali spente rive
la disillusa vita riconduci?
Dove sei se Diana già trasuda
gemmante tra i notturni rami e invade
delle ore il giro diafano e denuda
terrori ebbri di figlie e di rugiade?
Oh stringiti alla terra, a terra premi
tu la tua fantasia. Struggi la mite
notte Hitler, di fosforo, e congiunta
in alito di belva sugli estremi
muschi dardeggia Diana le impietrite
verità della mia mente defunta.
Giovanni Raboni
da Le case della Vetra
Compleanno
Nella città vuota, assolata, proiezione
dell'alba. L'orlo della luce
che si flette, degrada. Per
metà a mollo nell'ombra. Dalle gronde
viene un fischio acutissimo, leggero, come
se in un altro quartiere, oltre l'astruso
cerchio del Vigorelli, nel rombo
dell'aria condizionata
nascesse ancora tuo figlio.
da Cadenza d'inganno
La bara
Mi chiedo se una bara
può essere così calda , davvero come è stato
questa notte in un sogno -
dico calda da dentro se per ridere
cerco di sollevarla , se la tolgo
al furgone, alla fossa,
se l'abbraccio, sapendo nel legno che sei viva.
Amen
Quando sei morta stavamo
in una casa vecchia. l'ascensore non c'era. C'era spazio
da vendere per pianerottoli e scale.
Dovunque non t'è toccato di passare
di spalla in spalla per angoli e fessure,
d'essere calcolata a spanne, raddrizzata
nel senso degli stipiti. Sparire
era più lento e facile quando tu sei sparita.
Parecchie volte, dopo, mi è sembrata
una bella fortuna.
Eppure, se ci pensi, in poche cose
c'è meno dignità che nella morte,
meno bellezza. Scendi a pianterreno
come ti pare, porta o tubo, infìlati
dove capita, scatola di scarpe
o cassa d'imballaggio, orizzontale
o verticale, sola o in compagnia,
liberaci dall'estetica e così sia.
da "Versi guerrieri e amorosi"
Sì, ricordo: chi viene dalla notte
ha il suo segno di luce, vivo o spento,
cerchio ovale o losanga, e il suo lamento
o il suo silenzio nelle appena rotte
tenebre della strada. Ma non sento
se era a dinamo o a pila la tua spora,
anima, quando non essendo ancora
mi sfioravi nel buio come un vento.
da Ogni terzo pensiero
Non sono bandiere queste bandiere,
vedi che invece di ferite e ustioni
hanno fiori alle finestre, ai balconi
le case. Da infinite primavere
la giostra, qui, s'è fermata, i padroni
l'hanno portata altrove. Ma di sere
così, di notti come quelle, nere
fino all'occlusione, marce di tuoni,
tu sai che affanno e con che artigli preme
il semplice cuore. La verità
è che nessuna guerra è mai finita,
che la stessissima ferita geme
per sempre, che solo chi non ne ha
può scacciare i ricordi dalla vita.
Mario Luzi
da Poesie sparse
Nulla di ciò che accade e non ha volto
Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s'esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d'aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
E' questa l'ora tua, è l'ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all'improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s'incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch'io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l'amore non può giungere
né la dimenticanza di se stessi.
da Dottrina dell'estremo principiante
Che ho mai potuto dire
di te, maestà del mondo?
Ero in quel mirifico miscuglio,
stavo come stiamo noi mortali
in quella magnitudine
tra estasi e subbuglio
soverchiati nell'intelligenza...
unica e vera
tastiera in quella dismisura
era il mutismo, lingua conveniente
era l'assenza
radiosa d'ogni voce
e io per l'impazienza
ho rotto quel meraviglioso accordo,
di questo porto il carico
eppure non mi pento. Vanità, vanitas.
da Onore del vero
La notte lava la mente
Poco dopo si è qui come sai bene,
fila d'anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.
Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.
Questa felicità
Questa felicità promessa o data
m’è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove il molteplice nell’unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo
da Per il battesimo dei nostri frammenti
Vola alta parola
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi
sogno che la cosa esclami
nel buio della mente
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo sii
luce, non disabitata trasparenza…
La cosa e la sua anima?
O la mia e la sua sofferenza?
Vola alta, parola.
Vittorio Sereni
da "Frontiera"
In me il tuo ricordo
In me il tuo ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l'altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull'estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d'anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.
da Gli strumenti umani
Ancora sulla strada di Zenna
Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un'estate,
l'estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore.
Ma l'opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che all'occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.
Anni dopo
La splendida la delirante pioggia s’è quietata,
con le rade ci bacia ultime stille.
Ritornati all’aperto
amore m’è accanto e amicizia.
E quello, che fino a poco fa quasi implorava,
dall’abbuiato portico brusìo
romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:
volti non mutati saranno, risaputi,
di vecchia aria in essi oggi rappresa.
Anche i nostri, fra quelli, di una volta?
Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e difendici amicizia.
I Versi
Se ne scrivo ancora.
Si pensa a essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l'ultima sera dell'anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non è più felice l'esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l'Arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al segue. Ma c'è sempre
qualche peso di troppo, non c'è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
Umberto Saba
da Il Canzoniere, Casa e campagna
La capra
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
da Il Canzoniere, Trieste e una donna
Trieste
Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
da Il Canzoniere, Mediterranee, 1946
Amai
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica, difficile del mondo
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
da Il Canzoniere, Cose leggere e vaganti
Ritratto della mia bambina
La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva vesticciola: “Babbo
-mi disse – voglio uscire oggi con te”
Ed io pensavo : Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.
da Il Canzoniere, Mediterranee
Ulisse
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore
da Il Canzoniere, Parole
Felicità
La giovanezza cupida di pesi
porge spontanea al carico le spalle.
Non regge. Piange di malinconia.
Vagabondaggio, evasione, poesia,
cari prodigi sul tardi! Sul tardi
l’aria si affina ed i passi si fanno
leggeri.
Oggi è il meglio di ieri,
se non è ancora la felicità.
Assumeremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo alcuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.
Giuseppe Ungaretti
da Allegria di Naufragi, Ultime
Noia
Anche questa notte passerà
Questa solitudine in giro
titubante ombra dei fili tranviari
sull'umido asfalto
Guardo le teste dei brumisti
nel mezzo sonno
tentennare
da Allegria di Naufragi, Il Porto Sepolto
Il porto sepolto
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d'inesauribile segreto
Stasera
Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia
Fratelli
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
I fiumi
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
Ho tirato su
le mie quattro ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia
Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
Questi sono
i miei fiumi
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle distese pianure
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre
Salvatore Quasimodo
da Ed è subito sera - Acque e terre
Dolore di cose che ignoro
Fitte di bianche e di nere radici
di lievito odore e lombrichi,
tagliata dall'acque la terra.
Dolore di cose che ignoro
mi nasce: non basta una morte
se ecco più volte mi pesa
con l'erba, sul cuore, una zolla.
In me smarrita ogni forma
Altra vita mi tenne: solitaria
fra gente ignota; poco pane in dono.
In me smarrita ogni forma,
bellezza, amore, da cui trae inganno
il fanciullo e la tristezza poi.
da Ed è subito sera - Oboe sommerso
Oboe Sommerso
Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.
Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;
in me si fa sera:
l'acqua tramonta sulle mie mani erbose.
Ali oscillano in fioco cielo
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,
e i giorni una maceria.
Da Ed è subito sera - Erato e Apollion
Latomìe
Sillabe d'ombre e foglie,
sull'erbe abbandonati
si amano i morti.
Odo. Cara la notte ai morti,
a me specchio di sepolcri,
di latomie di cedri verdissime,
di cave di salgemma,
di fiumi cui il nome greco
è un verso, a ridirlo, dolce.
Da Giorno dopo giorno
Alle fronde dei salici
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano al triste vento.
La muraglia
E già sulla muraglia dello stadio,
tra gli spacchi e i ciuffi d'eba pensile,
le lucertole guizzano fulminee;
e la rana ritorna nelle rogge,
canto fermo alle mie notti lontane
dei paesi. Tu ricordi questo luogo
dove la grande stella salutava
il nostro arrivo d'ombre. O cara, quanto
tempo è sceso con le foglie dei pioppi,
quanto sangue nei fiumi della terra.
da La terra impareggiabile - Visibile, invisibile
Dalla natura deforme
Dalla natura deforme la foglia
simmetrica fugge, l'ancora
più non la tiene. Già inverno, non inverno,
fuma un falò presso il Naviglio.
Qualcuno può tradire
a quel fuoco di notte, può negare
per tre volte la terra. Com'è forte
la presa, se qui da anni, che anni guardi
le stelle sporche a galla nei canali
senza ripugnanza, se ami qualcuno
della terra, se scricchiola
il legno fresco e arde la geometria
della foglia corrugata scaldandoti.